Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio

anche il giovedì, che avrebbe dovuto essere "seriale" diventa film di qualità, visto che netflix non vuole farci condividere le visioni tra paesi diversi (rimane per me sconvolgente che una realtà così enorme a livello internazionale, abbia delle localizzazioni e distinzioni tra paesi nel catalogo)
recensione di SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA di onironautaidiosincratico.blogspot.it


Che il giornalismo in italia faccia piuttosto schifo, e sia asservito a vari poteri è chiaro a tutti, non da ora; che i giornalisti cerchino di indirizzare l'opinione (criticando tra l'altro in maniera per nulla coerente gli influencers moderni) è risaputo; che i potenti (i quali manifestano il proprio potere in ogni forma possibile) sfruttino i poracci morti di fame per i propri scopi è di pubblico dominio: questo film prende tutto questo e lo infila a forza, come un ripieno dentro un pollo del giorno di festa, in un prodotto di intrattenimento di 90 minuti.

Questo film dovrebbe essere proiettato nelle scuole di cinema, nelle scuole normali, nelle scuole cattoliche e pure nelle scuole politiche (che ormai sono quasi del tutto assenti sul territorio nazionale) come esempio e dimostrazione che un film di denuncia politica, sociale e culturale può essere, anzi dovrebbe esserlo sempre, un'opera d'arte a tutti gli effetti, senza scadere in didascaliche lezioncine su un qualche argomento che diventano interessanti solo per chi già conosce l'argomento e condivide l'opinione del regista/sceneggiatore.

La storia è semplice e lineare: un'omicidio viene utilizzato da un giornale per scopi politici, sullo sfondo di una società italiana fatta di ideologie polarizzanti ma spesso sconosciute nel profondo del loro significato da chi le porta avanti, senza che le stesse ideologie riescano ad elevare il singolo a qualcosa di più che non sia un minuscolo granello nell'enorme ingranaggio della società.

Quello che però viene raccontato alla massa non è proprio quello che è successo, ma più che altro quello che ognuno vuol sentirsi dire, e da lì, e dal rapporto tra potere e media, viene fuori il corto circuito che porta al nocciolo del film, che può essere facilmente riassunto in "è meglio essere coerenti con sé stessi e fare bene il proprio lavoro o svendersi per qualche euro/dollaro/lira?"; la risposta è che nessuno si salva, né il giornalista che manipola tutto e tutti per i propri scopi, e allo stesso modo non si salvano i compagni che mentono ai poliziotti per difendere "uno dei loro", anche la povera Rita Zigai è sì una pedina utilizzata per scopi più grandi, ma cerca di sfruttare la cosa per vendicarsi di Mario Boni reo di averla tradita e sfruttata.

Le collusioni tra potenti (giornalisti, poliziotti, ricconi proprietari di giornali, professori universitari baroni) è raccontata con semplicità e normalità, senza far diventare questa melma che attanaglia e rovina l'Italia la vera protagonista del film, ma solo un puzzolente sfondo davanti al quale si svolgono le vicende narrate, che però ne sono molto influenzate, forse determinate.

Tecnicamente ineccepibile: movimenti di macchina solo quando serve, montaggio perfetto, regia divina, interpretazione di tutti fantastica, musica nei momenti giusti e solo quella giusta.

Il film è al contempo attuale per la facilità con cui l'opinione pubblica prenda un presunto cattivo e lo faccia diventare punto di sfogo per tutti i leoni da tastiera moderni, sia vecchio, ma non stantio, per quanto riguarda il potere che c'è dietro il giornalismo e l'informazione tutta:il web ha cambiato la nostra società, spostando l'asticella dell'opinionismo ai profili privati, facendo diventare le fonti d'informazione un pelino più obiettive: ci sono ormai più editorialisti che cronisti, e questo è sintomo del tempo in cui viviamo, figlio dei '70, dove un'opinione conta più di un fatto, e lo si può vedere in maniera facile e molto comprensibile a proposito di pandemia e vaccini.

Due aneddoti simpatici sul film: l'attivista che si vede urlare nella scena iniziale è un giovanissimo e rauchissimo Ignazio La Russa; il Giornale, quello vero, verrà fondato da Montanelli solo due anni dopo l'uscita del film, e la redazione che vediamo nel film è in realtà quella milanese de il Manifesto.

L'origine della storia è un fatto reale di cronaca, accaduto un anno prima dell'uscita del film a Genova, che sicuramente ha influenzato e spinto Sergio Donati a pensare e scrivere il film, finito poi nelle ottime mani di Bellocchio e sul meraviglioso e perfetto volto di sua santità Gian Maria.








qui il film completo, finché dura



qui la recensione del Sommo



e qui una bella intervista al regista

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