Twelve Angry Men (1957) di Sidney Lumet

visto per "colpa" di Ethanp, che non legge più, non commenta più...ma vabbè, lavoro e distanza non aiutano (e comunque non è che prima commentasse così tanto…)
recensione la parola ai giurati di onironautaidiosincratico.blogspot.it
350000 dollari, ripreso in 19 giorni (un giorno in meno e 1000$ risparmiati), una produzione nata da una storia per la TV, diventata poi grande cinema grazie alla mano e all'occhio, per la prima volta sul grande schermo, del buon Sidney, che dopo anni di serial televisivi debutta al cinema con un masterpiece del Cinema (la maiuscola non è affatto casuale) e della critica alla società a lui contemporanea, ma che negli anni (ne son passati più di sessanta) non ha perso neanche un microgrammo della sua potenza e della sua forza.
Si inizia con una carrellata dall'esterno alla porta della stanza dove si sta svolgendo un processo per parricidio, poi si vede il giudice che fa una meravigliosa descrizione del ruolo del giurato ("Un uomo è morto. La vita di un altro è in gioco. Se esisterà nelle vostre menti un solo dubbio circa la colpevolezza dell'accusato, allora voi dovrete emettere un giudizio di innocenza. Se però tale ragionevole dubbio non esiste, allora voi dovrete dichiarare in coscienza che l'accusato è colpevole. Qualunque sia la vostra decisione, il verdetto deve essere unanime"), dopo carrellata sui giurati, breve inquadratura dell'imputato e poi solo giurati nella camera di consiglio, fino al finale; prima scena dentro la camera di consiglio lunghissima (più di 8 minuti filati, senza neanche uno stacco, la tensione generata sta nelle inquadrature, nei movimenti, e nell'illuminazione, non del montaggio frenetico e incerto e fortemente musicato dei film giudiziari d'oggi).

Cast spettacolare seppur ridotto all'osso: 12 giurati, un giudice, il ragazzo accusato dell'omicidio del padre, un usciere e qualche comparsa all'inizio; prima prova per Lumet regista (dopo un po' di roba in tv), nessuno dei giurati ha un nome (se ne scoprono solo uno durante il dibattito e due alla fine), ma non è interessante, ci basta la caratterizzazione che ne viene fatta: il 3 ferito come padre che accusa tutti i figli, il 4 che non suda, il 7 a cui interessa solo sbrigarsi per andare alla partita, l'8 che cerca giustizia e verità, il 12 incerto e che cerca di far divertire tutti con le sue battute da quattro soldi. Tra gli attori, tutti uomini, spicca per bravura, ma anche per il candido vestito che indossa (ed è l'unico ad indossarlo, non certo per caso) Henry Fonda: qui nel momento di massimo splendore e sviluppo della propria carriera (nonostante dopo questo farà ancora tanti, bei, film) che è l'instillatore e installatore di ragionevoli dubbi, l'unico che ha forse la piena consapevolezza del suo ruolo sociale e politico (la scelta degli americani di far decidere una giuria anche su un caso di omicidio di primo grado, arrivando fino alla pena di morte è un metodo per far sentire i cittadini partecipi all'esercizio del potere giudiziario). 

La spettacolare musica di Kenyon Hopkins accompagna i momenti topici, senza mai essere esagerata o invadente (come troppo spesso accade di recente, anche in film seriosi o drammatici, anzi forse proprio in queste tipologie). 
Il titolo originale è molto più azzeccato e critico: "dodici uomini arrabbiati", che non mostra allo spettatore il ruolo, come in quello italiano, ma solo la loro caratteristica principale: la rabbia. Ed è quello che lo spettatore percepisce fin dall'inizio: una rabbia continua, costante e immotivata, nei confronti di questo ragazzo, che già da tutti è dato per colpevole, ognuno per il suo pre-giudizio. 
Il film è stato candidato a 3 premi Oscar (miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura non originale), ma vinse "solo" un Bafta (miglior attore a Henry Fonda), di due premi al festival di Berlino (tra cui l’Orso d’oro), uno a quello di Locarno e un nastro d'argento come miglior regia.
I remake e le citazioni, nel corso di questi sessant'anni son stati parecchi, i più famosi son quattro: nel 1986 l'indiano Besu Chatterjee gira il suo "Ek ruka hua faisla" (letteralmente "Una decisione in pausa"); nel 1997 ad opera di William Friedkin (sempre solo con uomini, ma stavolta alcuni afroamericani, e viene introdotto il divieto di fumo nei locali del tribunale); nel 2007 per mano del russo Nikita Mikhalkov, vincitore di un premio speciale al sessantaquattresimo festival del cinema di Venezia; e infine nel 2014 "12 citizens", la versione cinese di Ang Xu.
Cercando info sul film capita di imbattersi nelle recensioni altrui, finché son blog o siti "specializzati" tutto ok (le idee si ripetono abbastanza simili tra loro, con diverse sfumature, ma rimangono quelle; al massimo trovi un "capolavoro" di troppo o un "pessimo", entrambi lanciati abbastanza a casaccio); ma è quando si trovano le recensioni degli utenti, e soprattutto le risposte che altri utenti possono lasciare sotto, che si libera il peggio del peggio e la maggiore incapacità del genere umano, soprattutto dietro uno schermo, di affrontare un problema: non appena si cita la critica al sistema giudiziario americano, di cui questo film ne è emblema, parte il "eallorailpiddismo" e si cercano tutte le falle degli altri sistemi (a partire da quello italiano), come se il film dovesse rispettare la parcondicio con qualsiasi altra posizione, come se si vivesse in una continua campagna elettorale perenne e che vale sempre e comunque, e lì viene da ridere, come neanche il cinema (o l'arte in genere) sia un porto franco del uebbe dove trovare gente normale con cui scambiare idee normali in maniera normale.


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