Coco (2017) di Lee Unkrich e Adrian Molina

Disney, nonostante l'arrivo imminente di Disney+ (molti parlano del 12 novembre come data di lancio, in contemporanea in tutto il mondo), lascia qualche briciola ai concorrenti, forse anche in seguito alla perdita dei diritti su Spiderman a favore di Sony...
recensione di COCO di onironautaidiosincratico.blogspot.it

Ogni tanto guardare non in sala un film ha dei vantaggi: in questo caso evitarsi 20 minuti di corto su Olaf da Frozen.
Scena iniziale spettacolare: al solito Disney e Pixar insieme riescono a fare degli spiegoni paurosi, che più che raccontare una storia, permettono allo spettatore di essere calato immediatamente nel mood della narrazione, immedesimandosi in maniera quasi istantanea coi protagonisti.

La storia è quella perenne di un'autoaffermazione, di un bisogno di staccarsi dalla famiglia d'origine senza perderne gli insegnamenti, senza però, al contempo, annullarsi in quegli insegnamenti e in quelle scelte di vita. In questo caso il determinismo familiare, e sociale, non viene rispettato, Miguel lo rompe con tutte le sue forze, andando contro le direttive della famiglia (che segue ciecamente il ricordo di una norma per la quale nessuno si è mai chiesto un solo perché) e sapendo di star sbagliando, andando quindi anche contro sé stesso e le proprie leggi morali, ma ciò non ha impedito al ragazzino di compiere quello che lui sente come "il proprio destino". La famiglia di Coco e Miguel non è il piccolo nucleo classico dei film americani: più che di grande famiglia potremmo parlare di piccola comunità, dove ognuno ha il suo ruolo, che va rispettato, e dove il benessere comune è perseguito rispettando le regole. Un parallelo potrebbe essere fatto con l'immaginario americano, dove l'eroe deve inseguire i propri sogni solo per il proprio tornaconto, che sia economico o di fama poco importa, ed è quello che inizialmente fa Miguel, anteponendo i propri sogni e la propria persona felicità a tutto e tutti; solo quando Miguel capisce davvero cosa significhi il successo (o almeno quello che la stragrande maggioranza identifica con esso) riesce anche a comprendere a pieno cosa sia la famiglia e cosa rappresenti.
Mentre Trump prova a costruire un muro, Unkrich e Molina mostrano il Messico in tutta la sua beltà e fanno vedere quanto siano più belli i ponti dei muri, anche solo architettonicamente: il ponte di petali sbrilluccicosi è un'invenzione grafica che stupisce e incanta, rendendo il passaggio tra i due mondi uno spostamento poetico, nel quale il ricordo ha un ruolo fondamentale (la polizia fa i controlli, ma se non hai l'altarino nel mondo dei vivi non puoi camminarci sopra quei ponti). Sicuramente la lavorazione di un film, soprattutto di animazione, è lungherrima, quindi non era intenzione dei registi accusare o attaccare Trump, però è quello il risultato, e va preso per buono, anche se non era esplicita intenzione originaria dello sceneggiatoregista.
La festa tipica e famosa del Dìa de Los Muertos in Spectre è confusionaria e caotica, qui è colorata e bellissima, ed è quasi una metafora del film o forse, più probabilmente, è il film a prendere spunto dalla festa: niente turbe, niente tabù, i bambini sanno che esistono i morti, ci giocano, li ricordano, ci interagiscono senza problemi e senza nessuna complicazione. Nella pellicola quindi i morti son parte della vita e viceversa, il loro "rompersi" e ricomporsi è di una semplicità ma al contempo potenza visiva inenarrabile, come la trasformazione mortuaria di Miguel: inesorabile ma non vissuta come un trauma da nessuno (è il rimanere bloccato e non poter vedere la famiglia e gli amici lo spauracchio); frase memorabile: "Spero tu muoia presto....vabbè hai capito". A proposito di potenza visiva le luci sono qualcosa di inenarrabile: l'esempio più efficace è l'acqua e i suoi riflessi, veramente fotorealistica e impressionantemente naturale; allo stesso modo l'animazione plasticosa, una sorta di 3D semplice ed efficace, che però con le luci diventa emozionante e coinvolgente, le luci sono naturali (seppur molto colorate) e gli effetti di riflesso e rifrazione sono inquietantemente realistici; dai fuochi d'artificio alle candele, dalle luci di un palco a quelle autoprodotte di un animale guida ogni colore, ogni singolo frame ha un gioco di luci che sono più studiate di un esame di filologia romanza all'università della vita.
Allo stesso modo l'ambientazione della città dei morti, che sembra decisamente Guanajuato City, ma che al contempo ha al suo interno una tecnologia steampunk messican-mortuale, che riesce a stupire e divertire insieme, senza mai annoiare lo sguardo né lo spettatore.
La Coco del titolo si vede due volte, forse tre, ma è il filrouge di tutta la storia e riesce, anche coi suoi silenzi, a raccontare e significare molto più di tanti altri personaggi che hanno più spazio nell'evolversi degli eventi. I due protagonisti, oltre alla musica, all'ammore, ai propri sogni e quant'altro, sono Coco e Miguel: due personaggi completamente all'opposto da qualsivoglia punto di vista: un ragazzino attivo e pieno di vita che vuole conquistare il mondo e una vecchietta che ormai è stanca, e quasi sempre è in scena con gli occhi socchiusi e quel sorriso tipico degli anziani che contemplano e ricordano il proprio passato. Altro personaggio fantastico è l'anima(le) guida di Miguel (quello di Imelda è semplicemente un grifonleone potentissimo): uno sbadatissimo, coloratissimo e pucciosissimo cane di nome Dante, cosa che ai bambini non dirà niente, ma di certo vedere un Dante che guida qualcuno nel mondo dei morti potrebbe ricordare a molti gli anni del liceo. A proposito di personaggi una menzione speciale a Frida Kahlo meravigliosa nell'aldilà come nell'aldiquà, e che nell'aldilà ha sviluppato e fatto evolvere la propria arte, diventandone musa e soggetto, in maniere nuove e modernissime.
Il regista è così sicuro del punto in cui si emozionerá tutto il pubblico che fa piangere pure i personaggi in scena, chiunque abbia visto più di due film in tutta la sua vita sa benissimo che la canzone "risveglierà" Coco, cionostante la lacrimuccia parte comunque inesorabile, senza possibilità di fermarla, anche per il più cinico degli spettatori. Allo stesso modo la morte dei morti, l'oblio quello vero e definitivo è così potente, seppur passato quasi in sordina, che diventa uno spauracchio per il prosieguo del film, fino a diventare la "cosa" da combattere assolutamente e in maniera fortissima alla fine, quasi il vero nemico. A proposito del nemico: il twist della sceneggiatura e il suo controtwist più avanti sono prevedibili e telefonati, ma in nessun istante riescono a scalfire la potenza della storia o la bellezza di quel che si vede sullo schermo, che è accompagnato da una colonna sonora, del maestro Giacchino, che riesce ad essere giusta nei momenti giusti, senza esagerare o coprire la narrazione. L'oscar alla miglior canzone ai coniugi Andreson-Lopez, con Remember me arriva alla coppia quattro anni dopo quello per Let it go.
Più che un film sulla morte è un film sul ricordo, sulla sua potenza e sul suo potere, su di noi e su chi è rimasto in basso. Quello che permette l'esistenza del Dìa de los Muertos è solo il ricordo, la morte è solo un passaggio, una sorta di cambiamento di stato (che vive anche Miguel in maniera non troppo turbata né sconvolta), un'evoluzione della propria condizione: ma è la dimenticanza, l'oblio il vero elemento distruttore della storia. 

Ultimo motivo per far diventare questo un film straconsigliato: i personaggi cantano quando devono, il loro cantare è diegeticamente inserito in maniera sensata, finalmente!


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