Arance e martello (2014) di Diego Bianchi

visto su un aereo ryanair per berlino, nel posto più sfigato del mondo, con accanto pure un vecchio che non conosce(va) esattamente il funzionamento del sapone e dell'acqua corrente
recensione arance&martello di Zoro di onironautaidiosincratico.blogspot.com>
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La radio che accompagna lo spettatore dentro il film, del 2014 ma ambientato nel 2011, è un filino anacronistica, nonostante nelle interviste il regista tenga a precisare che questo sia un "film in costume" ambientato 3 anni e mezzo indietro nel tempo. 
La storia è quella di un mercato rionale che sta per chiudere, che un sindaco (vagamente alemanniano) vuole chiudere, che un Quattordicine (vagamente trediciniano) non difende, di una sede del PD occupata, di un gruppo di mercanti (o mercatari) abbandonati a sé stessi che neanche la miseria e la prospettiva di rimanere a piedi riesce ad unire; il tutto condito con una calda, afosa e stranamente viva estate romana, quella del 2011, con sfondi politichesi di origine berlusconiana.
Il film è il primo, e finora l'unico, di Bianchi, dopo aver fatto praticamente la qualsiasi approda anche sul grande schermo: lo stile è il suo (almeno in metà del film) e questo è molto gradevole (a prescindere dal successo o dal media usato, il suo stile non cambia, rimane riconoscibile e divertente, nella sua semplicità e confusionarietà). Leggendo un pò in giro molti criticano il regista proveniente dal uebbe per aver scopiazzato e male, Fà la cosa giusta di Spike Lee, accusandolo di autoreferenzialità romana di sinistra: ora la domanda è "perché se Lee fa un film sulla sua newyorkitudine tutti ad osannarlo, se invece Bianchi lo fa sulla romanitudine è un coglioncello che non sa andare oltre i suoi costrutti banali da piddino romano?"; il cinema italiano è pieno di romanitudine, pieno di romani che parlano romanaccio, che sgorbiano parole e usano modi di dire tipici romani: da Sordi alla Magnani, da Manfredi a DeSica; conseguentemente è inspiegabile l'accanimento contro Zoro (seppur la giustificazione del "non so fare niente, ma almeno lo dico" è scarsina e di poco valore, da qualsiasi punto di vista). 

La narrazione è da un triste punto di vista della sinistra, che racconta la fine della sinistra, chiedendosi, in fondo, chi sia veramente di sinistra nel 2011 (e forse gli unici son i 3 vecchi al baretto, un piccolo palco dal quale vedere la realtà del mercato in maniera imparziale e quasi distaccata, e come il mercato forse tutta l'italia e la sua condizione sociale e politica). Il film sarebbe un mockumentary (come va di moda chiamare ora le opere di finzione che scimmiottano i documentari), ma in realtà con i suoi personaggi realistici, i dialoghi molto realistici, la situazione molto realistica sembra più una storia vera, raccontata con le modalità che Zoro ha creato (seppur motivate di certo da una carenza di mezzi e di collaboratori, che si ritrova facilmente anche in Pif, ad esempio): la radiocronaca anni '70 di tutti gli eventi, con gente che va ad informarsi, altri che stanno dietro le finestre ad origliare, lo scontro tra zecche e fasci, rende tutto più surreale, non impossibile, ma di certo strano e anacronistico. Tutto il realismo viene sputato in faccia allo spettatore nelle discussioni tra i vari mercatari e tra i tesserati (e non) della sede per decidere la linea d'azione: alla fine, come da infinita tradizione italica, ognuno rimane sulla sua e non si arriva a nulla (meravigliosa l'idea del farmermarket del CULO [perché non c'è altro nella ricercatrice iscritta ma straniera per anni] di una stupidità disarmante: il mercato è proprio quello che lei propone, senza però il nome inglese e le iniziative del cazzo, ma con un bel melone nella fontana, simbolo di un'italia che non c'è quasi più). Il PC dei grandi nomi, dei grandi ideali, diventa un PD povero di idee, scarno nei contenuti, stanco nelle azioni, ma Zoro lo racconta in maniera schietta e, chiaramente, schierata.
Cast spettacolare, seppur semisconosciuto: Tirabassi, Attili, Caporale; ottima la fotografia di Forte nella parte "seria". Cinquanta copie per 800000€ ben spesi, alla fine: la TV che si fa cinema col suo stile, ma senza mancare di rispetto al grande schermo, anzi; chiude la ventinovesima settimana della critica del festival del cinema di Venezia, di certo un buon inizio, che forse, purtroppo, non avrà seguito...



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