Bestie di scena (2015) di Emma Dante

biglietti presi per caso, all’ultimo minuto, un piccolo caso (un casino) di pessima organizzazione amicale: fatto sta che riusciamo ad andare a questo spettacolo...


immagine tratta da minimaetmoralia.it

come sempre, prima della recensione una breve presentazione di ogni partecipante, ma stavolta niente domande e niente risposte con le lettere; tutti si parla insieme, distinguendo solo con la formattazione, ma senza sapere chi sia a parlare:
eRica: 25, donna, studentessa, patate
Pietro: 28, uomo, studentepartimeincercadilavorofulltime, pizza con kebab

aspetto ancora gli altri due, ma non credo recensiranno mai



Lo spettacolo inizia prima ancora di iniziare, e forse non finisce neanche dopo che si cala il sipario (anche se il sipario, fisicamente non si alza nè si abbassa mai): si entra in sala, si cerca lungamente il proprio posto (visto che la maschera non sa neanche bene i numeri o le file) e già alcuni attori sono in scena,(un vecchietto mentre prendeva posto ha visto gli attori già sul palco e ha detto a bassa voce alla moglie “è già cominciato, sbrighiamoci” con un candore quasi commovente)  con delle tute, che si riscaldano, fanno esercizi variegati, poi sempre più ordinati e sincronizzati, fino all’inizio dello spettacolo (che non si coglie, come la fine, se non con le luci che si abbassano). Gli attori si spogliano dei loro vestiti, velocemente, quasi liberandosi di qualcosa, per poi diventare le bestie del titolo. Credo che il fatto che siano stati tutti trafelati e sudati abbia enfatizzato l’impatto della nudità: non solo gli attori sono nudi ma anche stanchi, con le facce e il corpo rossi, sudati… a me ha comunicato un senso quasi di “preda indifesa”. Cosa che ho ritrovato poi nella costruzione dello spettacolo in generale.
Lo spettacolo, la performance, l’installazione o comunque lo/la si voglia chiamare è una metafora della vita dell’attore: racconta come egli debba “spogliarsi” di ogni suo preconcetto prima di salire sul palco, di come venga maltrattato e sfruttato per un mero divertimento del pubblico (in due o tre punti si è generata un’ilarità che secondo me era solo parzialmente voluta dalla regista).
“Only you” dei Platters è l’unica cosa che sentiamo, oltre a una bambola e a qualche risata o un paio di "en garde", e lascia un senso di malinconia romantica, come un boccone agrodolce alla fine di un semplice e ripetitivo pasto.
Un applauso al pubblico che ci ha accompagnati in questa visione (tranne alle due signore che nonostante avessero comprato i biglietti con i posti assegnati hanno approfittato del ritardo di alcuni spettatori per sedersi qualche fila più avanti) : un solo applauso fuori luogo, e tantissimi colpi di tosse durante i silenzi della scena, riempiti quasi comicamente dai vari presenti in sala, più dalla platea che dalla tribuna (non credo sia indicativo, però l’ho notato. Magari la maggior vicinanza agli attori nudi ha creato più “tosse da imbarazzo” al piano di sotto, noi tutto sommato eravamo lontani!
Poco più di un’ora, scenografia inesistente: tutto dentro un cubo nero con una parete bucata per gli spettatori, e delle feritoie per lanciare gli oggetti di scena agli attori/bestie; nessuna trama, nessuna storia, nessuna musica: solo emozioni e sensazioni (sono sufficienti per fare uno spettacolo? agli spettatori l’ardua sentenza).
Che il teatro catanese si sta lentamente rialzando dopo il declassamento a teatro regionale? Fa strano vedere come ancora il nudo scandalizzi e attiri insieme quella fascia di radical chic della Catania bene, che si sente tanto alternativa nel vedere uno spettacolo di nudo, e debba manifestare all’uscita dal teatro, il proprio non-sconvolgimento, evidenziando come ancora lo siano a teatro un pene, un culo o una vagina in bella vista.
Viva il teatro, viva gli attori (più che i registi).


Un piccolo estratto da un articolo di Ivan che ho trovato molto interessante, pur non avendo visto il film, e molto attinente con quello che ho visto a teatro: 
«Chi studia programmazione neurolinguistica sa che esiste un tipo di linguaggio denominato "abilmente vago" che mira a coinvolgere emotivamente l'interlocutore tramite l'utilizzo di parole molto generiche e prive di un reale contenuto. Si tratta di una strategia comunicativa che neutralizza le facoltà critiche di chi ascolta, perché ogni frase è costruita in modo da essere inattaccabile su un piano razionale. Ad esempio l'espressione "bisogna entrare in contatto con se stessi" è abilmente vaga, perché indica la necessità di un percorso senza però specificare nel dettaglio in che cosa consista. Non è rivolta a nessuno in particolare, eppure ciascuno di noi vi si riconoscerà in qualche misura, provvedendo ad adattarla al proprio vissuto e interpolando gli spazi vuoti con ricordi, pensieri, riflessioni personali. Ed è inconfutabile, perché l'idea che esprime è troppo evanescente per poter essere sottoposta a giudizio.
Le applicazioni sono infinite e non si limitano alla comunicazione orale. Se dovessi citare uno scrittore abilmente vago, sceglierei senza esitazione Hermann Hesse: il suo romanzo Il lupo della steppa racconta la crisi di un uomo di mezza età in cui chiunque si può riconoscere, perché il malessere che descrive è troppo indefinito per essere riconducibile ad un preciso stato d'animo, i sintomi troppo variegati per non vibrare occasionalmente all'unisono con le frequenze emotive di chi legge. Chi non si è mai sentito solo, incompreso, estraneo ai propri simili? Se poi ci soffermassimo ad ascoltare i testi delle canzoni che affollano le nostre stazioni radiofoniche, avremo un'ulteriore conferma dell'illimitato potere della vaghezza come tattica comunicativa»



un piccolo estratto dello spettacolo: da notare l'unico commento, forse la migliore recensione della storia

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