Robinù (2016) di Michele Santoro

visto su Raiplay, scovato per caso ascoltando una puntata di Hollywood party dedicata al festival del cinema di Venezia dell'anno scorso...


Documentario del giornalista Santoro, che torna in Rai con questa produzione (bello che Rai abbia prodotto e poi passato questo documentario, tra l’altro in prima serata); portato anche a Venezia 73 (e ci vince pure un premio minore per il giornalismo). Tutto nasce da un fatto di cronaca: 60 ragazzini morti in una faida , nota ai più come “paranza dei bambini”.
Non c’è una vera e propria storia: i personaggi son tanti, i protagonisti pure: i baby-boss della paranza di savianana memoria riempiono lo schermo con le loro storie, la loro violenza e la loro ostentazione. 
la regia è semplice: sembra quella di un servizio di report (si vede la mano giornalistica di Santoro, alla sua prima esperienza sul grande schermo) molta macchina fissa, pochissima a mano e con pochi movimenti, tantissimi primi piani (poche e scadenti le immagini di esterni).
Solo due giorni in sala e poi in primaTV su Rai2: sarebbe inutile e vacuo verificare gli incassi.
Inquietante come i ragazzini carcerati guardino il grande fratello come un programma dove ci sono persone simili a loro (sia per ignoranza che per la reclusione).
Alcune frasi colpiscono per forza e analisi profonda quanto profondamente semplici e semplificate: 

  • la mamma è come Dio: perdona sempre tutto
  • devo dare una svolta alla mia vita! ora mando una lettera a Maria DeFilippi
  • il carcere così ammazza un cristiano: dopo 16 anni esco e che faccio? Chi me lo da un lavoro?
  • mio fratello che è andato via per sfuggire al Sistema? per me è morto, al massimo potrei andare a trovarlo al cimitero, un giorno…
  • quando vai a scuola e sei una ragazza cerchi il ragazzo intelligente, quello che lavora (spaccia, spara), quello che studia non può darti le stesse cose, non può amarti come fa l'altro
  • da grande non voglio fare niente, voglio solo avere i soldi in tasca e spenderli

rispetto all’ultima frase, più che Robin Hood questi ragazzi sembrano tutti Peter Pan: disposti solo a rimanere bambini, con tutto pronto e subito, incapaci di crescere e relazionarsi in un mondo dove nessuno ti dà mai niente per niente, e soprattutto dove per ottenere 1 bisogna devastarsi il culo a lavorare dando 100, e dovendo essere comunque grati che quell’1 sia arrivato. 
Quello che emerge da questo documentario è una città nella città dove leggi, moralità e valori sono completamente stravolti e modificati: ragazze-madri 17enni che il sabato DEVONO andare a ballare in minigonna dopo che tutta la settimana spacciano per “mantenere” i mariti in carcere; genitori che “hanno dato tutto ai figli: motorini, cellulari e vestiti nuovi; ragazze che raccontano la prostituzione come l’unica via per “vivere come vivevo prima”, quasi che cambiare lavoro e stile di vita sia un’onta da lavare col sangue.
Gli unici che capiscono, forse, la gravità della situazione di questi ragazzini sono i genitori, e sono anche gli unici a prendersi delle responsabilità per quel che succede, il più Delle volte non sono manco loro.
Anche nella malavita i giovani vogliono tutto e subito, non vogliono più fare la gavetta, e questi ragazzi sono l’esempio massimo e più potente di questo bisogno di risultati immediati, contemporanei quasi alle azioni compiute, come se tutta la vita fosse un gigantesco videogame, dove i risultati di vedono dopo pochi istanti.
La malavita è chiaramente un sistema alternativo ad uno Stato assente (e qui l’odore, o puzza in base alle correnti di pensiero, di demagogia si sente).
Testarossa è un servizio geniale: poste dal carcere e fino a casa
Finale amaro, ma onesto: l’unico che ce la fa è il fratello di Michele-Robinù che se ne va in Francia a fare il pizzaiolo.



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